I diversi criteri applicati al contratto internazionale
La situazione economica degli ultimi anni, vede il Paese Italia arretrato rispetto agli altri paesi industrializzati, con una mancata crescita in termini di Pil, e tutti gli indicatori che ne evidenziano la recessione dal punto di vista occupazionale, dei dati di vendita e consumi e dal saldo negativo tra le imprese che aprono e chiudono.
C’è stato un aumento di fallimenti e procedure concorsuali in tutti i settori, sopratutto nell’edilizia, nel commercio e nel terziario.
In questa situazione le aziende sono state costrette a fare delle scelte per trovare le soluzioni migliori e superare le difficoltà in cui si trovano; fra le possibili soluzioni vi è quella di verificare le condizioni per poter intraprendere l’attività all’estero.
Se si decide di avere dei rapporti con soggetti terzi che operano in uno stato estero rispetto alla nostra azienda, sarà necessario curare gli aspetti legali che regolano questi rapporti, per non ritrovarci di fronte a delle situazioni di emergenza, che sarà difficile da gestire, dovendo dimostrare le nostre ragioni che sicuramente divergeranno dalla nostra contropoarte.
Il Contratto Internazionale è l’accordo tra due o più parti appartenenti a diversi Paesi; con esso sorge un rapporto giuridico tra soggetti che appartengono a differenti sistemi legislativi, coinvolgendo spesso partner commerciali che non solo appartengono a Stati diversi, ma anche a sistemi giuridici di ‘civil law’ e ‘common law’, talvolta anche molto diversi tra loro.
Tuttavia, ben può essere internazionale anche un accordo tra due soggetti appartenenti allo stesso Paese, ma che produce i suoi effetti anche o solo in un Paese straniero, come ad esempio accade nel caso dei contratti di distribuzione.
Va dunque in primo luogo operata la scelta riguardo alla legge applicabile al contratto, ovvero quell’insieme di regole che disciplineranno i rapporti tra le parti.
Quando le parti non hanno deciso che legge applicare al contratto, ecco allora che devono essere prese in considerazione le Convenzioni internazionali, come ad esempio la Convenzione di Roma (essa non è applicabile ai contratti di trasporto, a quelli coi consumatori e a quelli che hanno come oggetto diritti reali di godimento su beni immobili) con la quale alcuni paesi appartenenti alla Comunità Europea hanno reso uniformi i criteri di scelta della legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, nei casi in cui è applicabile, o le norme interne di diritto internazionale privato. Va comunque tenuto conto che le norme di ordine pubblico dello Stato di appartenenza del Giudice competente a decidere eventuali controversie, che dovessero sorgere tra i contraenti, devono essere applicate in ogni caso.
Questa tecnica – definita depeage (frazionamento) o morcellement – che presuppone la scomposizione del contratto in più parti con l’assoggettamento di ciascuna di esse a leggi nazionali diverse, incontra ovviamente un limite nella complessiva coerenza del quadro giuridico delineato dalle parti.
La tecnica in questione ha sollevato molte critiche da parte dei giuristi di common law, e anche personalmente la considero più figlia di un’impostazione teorica dei redattori della Convenzione di Roma che di reale possibile applicazione.
Un altro aspetto della Convenzione di Roma, che è stato apertamente criticato dai giuristi di common law, è dato dalla prescrizione contenuta all’art. 3 (2), in base alla quale le parti hanno la possibilità di modificare, di comune accordo, la legge precedentemente scelta come regolatrice del contratto, o di effettuare tale scelta anche in un momento successivo alla conclusione del contratto.
Con riguardo a questo aspetto, il common law assume una posizione più rigida, in quanto, una volta effettuata la scelta del diritto applicabile, ritiene che non sia più possibile modificarla.
In mancanza di un’espressa scelta della legge applicabile, i criteri adottati possono essere differenti, soprattutto ad opera degli arbitri, essendo questi ultimi normalmente più svincolati dall’applicazione delle norme di diritto internazionale privato.
Non esiste una vera e propria regola in proposito:
– alcuni interpreti hanno provato a ricavare la legge applicabile sulla base delle norme di diritto internazionale privato;
– altri hanno cercato di risalire all’intenzione delle parti, sulla base dell’esame degli altri elementi presenti nel contratto, quali il linguaggio o particolari termini giuridici utilizzati;
– altri ancora, hanno cercato di individuare riferimenti, all’interno del testo contrattuale, ad elementi che consentano di definire l’ordinamento giuridico da applicare.
Non è rara la situazione in cui i giudici o gli arbitri hanno valutato gli elementi contenuti nel contratto non sufficienti al fine di ricavarne un’implicita scelta della legge applicabile ad opera delle parti.
Altro criterio adoperato da giudici ed arbitri nella determinazione del diritto applicabile, al quale si fa di norma ricorso quando la scelta della legge applicabile, oltre a mancare, non sia neanche desumibile dall’esame delle intenzioni delle parti, è rappresentato dal collegamento più stretto, che, come abbiamo visto più sopra, è il criterio accolto dalla Convenzione di Roma del 1980.
Il concetto in questione ha però un contenuto piuttosto vago, implicando la necessità di individuare nell’ambito del contratto uno o più fattori in base ai quali è possibile determinare quale, tra i più sistemi giuridici in conflitto, si applicherà al contratto, in quanto con esso presenta i legami più stretti.
Gli elementi normalmente presi in considerazione sono la nazionalità, la residenza, il luogo di conclusione e di esecuzione del contratto.
Non essendo però questi predefiniti in base alla legge o altro criterio normativo, la valutazione della loro scelta è rimessa alla discrezionalità del giudice o dell’arbitro, con ovvie conseguenze in termini di unpredictability della decisione finale.
Al fine di ridurre tale incertezza, i redattori della Convenzione di Roma hanno inserito una serie di presunzioni, quale ad esempio quella secondo cui nel contratto di vendita si ritiene che la prestazione caratteristica consista nell’obbligo, da parte del venditore, di consegnare il bene al compratore: di conseguenza, la legge applicabile è quella del venditore.
A tal proposito bisogna precisare, in generale, che la prestazione caratteristica comunque non è mai costituita dalla prestazione in denaro.
Maurizio Verona
Dottore Commercialista in Catania (maurizio.verona@mposervice.com)